Gustavo Benucci
Per me l'arte è la più concreta forma di vocazione religiosa dell'uomo, la più autentica forma di quella aspirazione e spinta verso il divino, il trascendente, che si trova in ogni uomo. Mi spiego: la più vera perché non ha confini etnici, geografici; perché abbraccia l'uomo nella sua globalità e non naufraga nelle secche delle religioni istituzionalizzate.
Ma io chiamo Artista l'uomo dell'utopia, l'uomo che si sente chiamato a qualcosa che può poi divenire Arte ma può anche esprimersi in senso sociale o mistico, come la scelta di vivere per gli altri, per alleviare le sofferenze e l'apparente nonsenso di questa esistenza.
Budda, Gesù Cristo, Gandhi, san Francesco sono alcune delle grandi luci dell'umanità, uomini dell'utopia che hanno avuto un comune denominatore: proporre l'amore come l'unica salvezza alla crudele cecità dell'uomo.
L'artista vero, con la sua opera, cerca di dire la stessa cosa...e la sua opera non è che frutto d'amore.
Se non è così, non c'è arte né artista, ma solo mistificazione. E mistificazione sono in genere le religioni che diventano centri di potere per gestire le masse prive di cultura e di capacità di giudizio e di autosufficienza, e che vengono facilmente usate in nome della paura della morte e di un ipotetico aldilà. Ma questa è la storia dell'uomo e l'uomo stesso non esisterebbe se non avesse LA storia...
E l'Arte, la storia dell'Arte, cosa sono? Forse l'Arte, in senso globale, costituisce la vera differenza fra l'uomo e l'animale. I graffiti delle Grotte di Altamira ci parlano già dell'uomo nel senso più pieno, e anche se la sua mano esce armata di sole asce di pietra, già riusciva, a fatica, a difendersi da animali in genere tanto più dotati di lui fisicamente.
E se dico che quei graffiti mi commuovono più della Cappella Sistina? Ma qui già siamo nella storia dell'Arte e allora sia consentito a un pittore di parlare un pò del come lui la vede e la sente.
A Altamira l'uomo è bambino, ma già esprime amore, stupore, ammirazione per l'ambiente che lo ospita, per le creature con cui si trova a convivere. E nei graffiti già ci sono sacralità, simbologia rituale. Poi il salto è grande...al Sedicesimo secolo, a Michelangelo...Ci lasciamo dietro l'infanzia, la gioventù dell'uomo, la grande arte egizia, il divino Fidia, la pittura del mondo greco, il cui splendore possiamo solo intuire attraverso le decorazioni vascolari giunte a noi. Poi lo stupore degli encausti pompeiani; poi, già nel filone generazionale al quale noi apparteniamo, il Cavallini, i Pisano, Duccio, Giotto, Piero, Masaccio. Pochi nomi (ma sono tanti da fare) per ricordare il periodo magico della maturità dell'uomo, con gli ideali intatti, con le mani e la mente e il cuore ancora pieni di verità.
Nella Cappella Sistina comincio a sentirmi a disagio; sento che l'uomo è arrivato al massimo. Forse la più grande testimonianza della capacità creativa dell'uomo: e sento crescere in me il disagio. È l'uomo adulto che ha perso lo smalto della verità interiore.
Michelangelo dipinge se stesso, il tormento delle sue deformazioni omosessuali più che la storia della Chiesa imperiale che lo ospita.
Cristo, la cristianità intesa come riscatto dei più deboli dalla prepotenza dei potenti è assente.
E già comincia una lunga discesa che porterà ai nostri giorni...a un uomo, l'occidentale, che è totalmente invecchiato e sta perdendo virilità e lucidità. Ma quante luci in questo lento declino...Come citarle? Ci basti, vicina a noi, la lucida follia di Van Gogh e la caparbietà illuminata di Cézanne. Poi, pian piano, l'uomo perde quell'individualità creativa che è stata la sua forza. Tende a diventare branco, grande massa guidata da pochi strumenti tecnologici. È il trionfo del cervello che oramai domina un corpo e passioni che non ci sono più. E l'Arte resta solo un'idea astratta, estranea ormai a un ambiente e a un sentire di cui l'uomo, nella follia dei tempi, non riesce più a percepire le voci. È l'angoscia impotente dei tagli di Fontana, il dramma di Pollock, la solitudine di Burri.
Ma basta così: guai ai pittori che parlano di altri pittori. A noi è concesso di parlare solo di noi...Se riusciamo a pescare nel fondo del nostro animo sensazioni, emozioni, pensieri, è bene che cerchiamo di esprimerli, di metterli in parole perché forse potranno giovare a qualcun altro, aiutandolo a leggere in se stesso...Ma, scrivendo, uno è vero solo se parla di cose vissute visceralmente, sofferte giorno per giorno. È questa forza che mi sostiene oltre la malattia, oltre il mio pessimismo e la voglia apparente di morte? È un amore sconfinato per la vita che passa per il foglio, per la tela, su cui dire con il pennello "ti amo".
Quando dipingo c'è tutto in me: la concentrazione della preghiera, l'eccitazione della scoperta, dell'avventura, il silenzio pieno di voli misteriosi di un'altra dimensione; non ho più età e mi sento al centro di tutto....Sulla punta del mio pennello c'è tutto me stesso e la mia mano diventa strumento perfetto al servizio del cervello, dell'anima, misterioso tramite di tensioni che vengono dall'universo. E allora Dio mi cerca, mi trova.
Poi la vita continua, e in vista di qui momenti di grazia trovo la forza di andare avanti in un mondo che non mi piace, che non è più il mio e che vedo sempre più vuoto e stupido, perso dietro il denaro, il potere. Sento non tanto la mia vecchiaia, quanto quella della società, della civiltà cui appartengo e che penso sia vicino al collasso.
Perugia, gennaio 1991