Giorgio Bonomi
È strano che una regione come l'Umbria, carica di storia e di arte, curi poco la propria storia e la propria arte. È forse l'innata riservatezza degli Umbri che impedisce una più vasta, e più rapida, conoscenza di quel vasto patrimonio che è, comunque, alla portata di tutti.
Se questo vale anche per il passato, per il presente mette in estrema difficoltà lo studioso, costretto - con piacere, in verità - a basarsi sulla testimonianza orale, sulla ricerca delle scarne cronache dei giornali locali, sulla scoperta di qualche vecchio scritto o catalogo. La produzione artistica dell'Umbria del dopoguerra è assai ricca - oltrepassando il pur bravo Dottori, osannato oltre misura in questi ultimi tempi e sicuramente con suo fastidio se potesse essere ancora tra noi - eppure non si conosce; la documentazione è nascosta, la memoria sfugge, i protagonisti osservano silenziosamente. Credo, all'opposto, che sia ora di studiare, e forse la suddivisione per decadi è la più opportuna al di là degli inevitabili schematismi, quanto gli artisti umbri, e più in generale il sistema dell'arte umbra (si pensi, per esempio, all' "Unione delle Arti" e alla Galleria Nuova di Via Mazzini), hanno prodotto. Non è solo il gusto per la ricerca storica che deve spingere alla ricostruzione analitica ma anche, e soprattutto, quella volontà dichiarata da più parti di comprendere la situazione attuale.
Nel bene e nel male dobbiamo risalire il nostro tempo. Non è pensabile poter fare, ora, critica d'arte, senza una profonda conoscenza della storia dell'arte umbra degli ultimi decenni.
Purtroppo non è questa la sede per un simile lavoro, ma mi sembrava doverosa questa messa a punto proprio perché sto parlando di uno dei protagonisti dell'arte umbra del dopoguerra, Gustavo Benucci: su di lui e sugli altri personaggi degli anni '40, '50 e '60, se la volontà e l'intelligenza mi assisteranno, tornerò con ben altri approfondimenti.
Benucci, per il suo carattere schivo e riservato - da anni si è posto in una sorta di esilio dal mondo (dalla mondanità) dell'arte, anche se non dall'arte creata, come testimonia la sua prolificità recente - non aiuta certo il ricercatore.
È poco archivista di se stesso, non tiene schedari precisi, per trovare qualche catalogo delle mostre a cui ha partecipato, anche quelle più importanti occorre frugare per giorni.
E non è certo per snobismo o gelosa chiusura: è il suo modo di essere, teso al fare più che al parlare, anche se questo parlare riguarda se stesso, la sua opera, e - perché no? - la sua vanità, che invece è rivolta tutta, appunto, alla volontà di produrre.
Che Benucci fosse un protagonista e uno dei giovani artisti umbri più qualificati negli anni '50 è provato, oltre che dalle opere, dai riconoscimenti ottenuti: penso alla XXV Biennale del 1950 o alla VI Quadriennale del 1951, in tempi in cui, oltre alle inevitabili "scuderie", un artista poteva concorrere ed essere accettato o escluso presentando, senza "protettori", la nudità della sua opera.
Benucci - Dottori ormai misticheggiante e Mancini preso, anche se in modo del tutto personale, dal realismo sociale - è tra i primi a cogliere l'importanza espressiva dell'astrattismo, e lo fa con riferimenti netti, Cézanne e Mondrian, dell'uno gli interessa la (s)composizione dello spazio, dell'altro, ma poi è la stessa cosa, la geometrizzazione delle linee e dei colori. Tutto questo intenso né come scuola né come corrente, semplicemente come nuovo fondamento sintattico del linguaggio artistico che è sì personale ma non, perché tale, deve essere scorretto e sgrammaticato.
Il riferimento storico gli fa velocemente risolvere i giovanili tentativi pittorici - che non possono non risentire del clima della "scuola romana", dato che la formazione culturale e artistica di Benucci avviene proprio a Roma - gli stempera le tentazione prima neocubiste e poi informali, gli impedisce il fotograficismo una volta riassunta l'espressione di tipo figurativo. Cioè l'arte di Benucci si snoda indubbiamente per fasi, e a volte per salti, ma è rintracciabile una continuità della ricerca, o meglio di un'urgenza espressiva, che è basata sulla purezza del segno e sull'equilibrio dei colori.
In questo è artista contemporaneo, che è poco interessato al contenuto dell'opera. Quando dipinge un paesaggio - anche i recentissimi - il suo problema è la luce, il colore, il segno; per godere il paesaggio reale basta l'occhio o il camper che su quel paesaggio lo ha portato; ed anche l'osservatore farebbe un errore imperdonabile se si fermasse ad una lettura naturalistica: si priverebbe del piacere dell'arte più profonda di Benucci.
Non è un caso che anche la sua produzione architettonica, tra il '59 e il '67, poco conosciuta ai più, sia volta tutta all'equilibrio delle linee (movimento moderno) dell'edificato con la natura circostante (le sue architetture sono sempre immerse nel verde degli alberi umbri), senza patetismi vernacolari. Sorgono così edifici radicati, col filtro del sentire (e della tecnica) contemporaneo, fin dalle fondamenta, nel tempo e nello spazio del luogo.
È, quindi, la "scomodità;" del personaggio, non facilmente inquadrabile ed anche troppo ritirato, che impedisce, soprattutto alle nuove generazioni, di conoscere il suo operato. Questa mostra è una sorta di rinascimento, ma non basta: quel che occorre è, dicevo sopra, la storicizzazione al di là del gusto e del soggettivo che, certo, servono alla critica ma non a quella attività intellettuale che è la storia, la quale solo, come l'arte, offre all'uomo il piacere della consapevolezza di essere tale.
[1986]