Gustavo Benucci
Il primo ricordo della "Chiamata" alla pittura risale all'ultimo viaggio a Perugia, prima che le vicende belliche rendessero difficili le comunicazioni. Siamo tra la fine del 1942 e gli inizi del '43.
Il treno, nel riportarmi a Roma, percorre la piana di Foligno verso Spoleto e io, guardando fuggire i filari degli alberi, la campagna, sento dentro di me all'improvviso un desiderio enorme, struggente, di fermarmi lì, in quei luoghi, a dipingere quegli alberi, quei campi, per tutta la vita.
Ho memoria lucidissima di quegli attimi, mentre una fitta nebbia avvolge le vicende di quel viaggio. E poi è accaduto proprio quello che allora ho tanto desiderato. Tutta la vita ho dipinto alberi e campi, cercando la mia identità.
Ho già detto dei disegni e acquarelli di Villa Borghese e di Villa Glori: erano cose spontanee e istintive. Poi, subito dopo, i primi passi nell'esperienza culturale.
I pittori della scuola romana: Scipione, Mafai, "gli orti romani" di Omiccioli; poi Segantini e il suo magico mondo della montagna mi affascinano. I primi libri letti sono "Lettere a un giovane poeta" di Rilke, e "Il lupo della steppa" di Herman Hesse.
Poco dopo scopro Van Gogh e Cézanne. I primi anni è un gran fare e distruggere; sono quasi sempre insoddisfatto dei miei tentativi e i dipinti della mia personale del '47 risentono di questo tumulto. Ricordo di aver valutato a circa cinquecento le cose fatte e distrutte di quel tempo.
Alterno il lavoro in studio, alle uscite in campagna, dal vero.
Nel 1949 un paesaggio "Macchia di San Domenico 1949" vince il secondo premio (il primo va ad Ugo Castellani di Terni) alla mostra interregionale dell'arte contemporanea di Foligno.
Poi, i periodi cubisti di Picasso e Braque sono il nuovo punto di riferimento, e nel '50 approdo a una sorta di neocubismo, testimoniato da una serie di opere tra cui "Composizione con vaso giallo" che sarà esposto alla XXV Biennale Veneziana del 1950, e da una pittura murale eseguita in quella che era ancora la mia casa di Piazza del Duca.
Ma già alla fine del '50 abbandono lo schematismo neocubista per trovare una via più mia nel diretto contatto con il paesaggio. Nascono così quadri come "Casa di Perugia, 1951", cui la commissione presieduta da Virgilio Guzzi assegna, al secondo Premio Nazionale di Pittura "Terni", il Premioacquisto del Quirinale "Luigi Einaudi" dopo il primo Premio: una medaglia d'oro, che va a Gerardo Dottori.
Nello stesso anno sono presente con "Alberi '51" alle VI Quadriennale d'Arte di Roma. Intensissima è la mia attività di quegli anni. Nel 1953, con l'insegnamento, ho una battuta di arresto, e si rarefà la mia presenza nelle mostre, anche se in quello stesso anno sono invitato al VII Premio Michetti a Francavilla a Mare, nel 1955 alla Biennale di Pittura "Premio Scipione" di Macerata, e nel '57 al IX Premio Nazionale di Pittura "Golfo de la Spezia". Nello stesso anno 1957, insieme a Pietro Scarpellini, grande amico di quel tempo, organizziamo la mostra "Il Trasimeno muore" che si terrà a Roma a Palazzo Braschi, e che avrà una grossa eco. Darà un contributo alla soluzione del problema del Trasimeno, ridotto a quel tempo a un grande stagno.
Sono anni di ricerca, sul filone delle varie situazioni estetiche derivate dalla lezione cézanniana. Lavoro di memoria e, in una lunga serie di pastelli e tecniche miste, affronto per la prima volta soluzioni formali per me totalmente nuove, ma non arriverò mai all'astrazione pura, e manterrò sempre con il paesaggio un contatto evocativo. Quando, nel '59 giungo a Mondrian e nella serie dell'albero sento farsi assoluti i valori degli equilibri formali e geometrici, smetto di dipingere, e comincio la mia attività di architetto.
Sin da allora nasce in me il desiderio di costruire un giorno una chiesa, e quasi segretamente riempio una cartella di schizzi. Uno stimolo mi giunge da un incontro che ho a Firenze con Giovanni Michelucci, nella metà degli anni'60, in occasione di un corso per insegnanti di materie artistiche, presso l'Istituto d'Arte di Firenze. Stiamo insieme per più di due ore nella sua da poco finita Chiesa dell'Autostrada e ho uno stupendo ricordo di quel colloquio.
Recentemente, a Villa Prati di Bertinoro, questo desiderio sembra potersi realizzare. C'è il posto: una stupenda radura nel bosco, c'è la volontà dei miei amici di darmi carta bianca. Io penso a una casa per tutti gli uomini. Dietro l'altare, una semplice pietra, voglio dipingere un grande campo fiorito, delineato da olivi, con una croce di legno in quercia al centro. Ai lati, come proveniente dall'ingresso, due teorie, due file di popolo con uomini e donne di tutte le razze e condizioni che camminano semplicemente verso la luce e la speranza.
Non ci sono immagini di alcun genere.
La croce è quella di Cristo, ed è anche quella che ogni uomo porta sulle proprie spalle per tutta la vita.
Faccio anche un plastico nel 1985, e tanti studi.
Ma sento ancora lontano il tempo di una realtà del genere: è una utopia. Me ne rendo conto e rinuncio.
Il mio divorzio dalla pittura, iniziato con il lavoro di architetto dura circa un anno.
Nel 1960-61 riprendo in silenzio, senza più esporre, a lavorare e a ricercare un via che mi consenta di conciliare le mie problematiche culturali con l'amore per il paesaggio e la natura.
Nel '61-'62 sposto lo studio alla Trinità e ho un periodo di lavoro molto intenso.
"Albero d'inverno" del '61, "Campagna a San Marino di Perugia" del '62, il grande "Incendio nel bosco" (quadro di cui ho perso le tracce), fanno parte di un gruppo di opere in cui gli equilibri spaziali in un paesaggio rivissuto nella memoria e a volte tratto da appunti dal vero.
Ma presto avverto la chiusura anche di quel discorso, e mi preme dentro il ritrovare la spontaneità del rapporto con il vero, con i miei alberi e i miei campi, e sarà all'inizio un timido ritorno.
Riprendo a dipingere dal vero, e sento di rifarmi idealmente più a Constable, a Turner e ai paesisti di Fontainebleau, e non mi sento un rinunciatario, mi pare anzi, di inoltrarmi per una strada nuova, non battuta, per recuperare valori che ora sembrano consunti, ma che torneranno a contare.
Da tempo avverto la solitudine della mia ricerca, lontano dalle mode e dai dettami della critica corrente. Questa mia estraneità al mondo della cultura ufficiale si accentuerà sempre di più e finisco per essere un isolato. Tagliato fuori del tutto dal mercato, non corro il rischio di lasciarmi prendere la mano dal mestiere e d'altronde ho sempre gridato ai quattro venti di voler fare qualunque lavoro per pagarmi il lusso di dipingere in piena libertà.
Da sempre ho coscienza che la pittura è l'unico mezzo che ho per comunicare, per esprimere me stesso. Già da gli anni settanta affronto direttamente il dipinto senza tracciare sulla tela alcun segno preliminare. Forma e colore nascono insieme, e sono assunti, letti, scoperti direttamente e totalmente sulla realtà.
Non copio, e non deformo; non amo né ho preferenza per nessun colore e nessuna forma a priori e l'obbiettivo che perseguo non è raccontare ma cogliere il senso più profondo, il significato di ciò che ho davanti e intorno a me, della realtà nella quale sono totalmente immerso.
Raramente rimetto le mani su un quadro: finisco dal vero, e smetto nel momento in cui qualcosa scatta in me e mi dice basta.
La mia pittura dal '76 all' '81, costituisce un periodo ben circoscritto del mio lavoro. Alle opere del "Periodo di Trento" propriamente detto, drammatico e amaro e che qualche critico ha erroneamente definito ecologico, segue una serie di quadri in cui tale simbolismo si attenua e scompare per far posto ad una attenta indagine del reale, ma mediata dell'esperienza fotografica che è la vera protagonista di quel periodo. La mia amica, in quel tempo, è la mia Canon, che è occhio e blocco di appunti. Riscopro Courbet, e tutte le esperienze parallele di fotografia e pittura sono al centro del mio interesse.
Con "Il gabbiano" del 1980 riprendo e concludo il mio simbolismo per significare la definitiva liberazione dalle reti angosciose del dolore.
Poi, inizierò la serie dei ritratti di famiglia, tutti nati di mia iniziativa, per un atto di fede verso un istituto che, sempre più in pericolo, ritengo indispensabile alla vita sociale dell'uomo.
Ma è anche e soprattutto testimonianza di affetto per gli amici di allora e le loro belle famiglie.
Quando qualcuno comincia a farmene commissione, smetto. Non ne sono capace.
Questo periodo si conclude con le opere dedicate a "La mia Città" di cui già ho detto.
Dipingo, ma già da anni, moltissimi ritratti dal vero, con immediatezza e rapidità. Mi piace indagare l'animo umano e mi eccita lo strano colloquio che si svolge fra modello e pittore. È un momento di assoluta verità a cui nessuno riesce a sottrarsi.
E così i miei ritratti in genere non piacciono alle persone in oggetto, che non amano vedersi scoperte nei più remoti angoli della loro personalità
Dal giugno dell'82, dal mio riprendere a vivere, ritorno al plein air ed è con commozione profonda e con la timidezza del neofita che riparto da dove ho lasciato tanti anni prima.
Mi lascio come sempre, guidare dal mio istinto, ma prendo sempre più coscienza delle radici culturali e storiche della mia ricerca: riproporre una rilettura della lezione cézanniana ma non nella chiave consueta. Ripartire da Mondrian per tornare alle cose, ma camminando in avanti.
Ma questo lo capisco, ed è una folgorazione, quando, nel 1984, vado Aix-en-Provence: "O è Cézanne che ha fatto la Provenza o è la Provenza che ha fatto Cézanne": queste sono le uniche parole che riesco a scrivere appena tornato da quel viaggio, cercando di esprimere l'emozione provata.
E capisco allora che il mio amore per Segantini prima e per Cézanne poi, malgrado la fondamentale differenza fra i due, ha un preciso nesso: la sublimazione che Segantini ha fatto delle sue montagne, Cézanne l'ha fatta della Provenza.
Con la sua arte è entrato nelle più profonde viscere della sua terra, costruendo una monumentale nuova unità di forma-colore, ma sulle cose e dentro le cose. Dall'arbitraria interpretazione di alcune sue parole, si sono mosse le grandi avventure formali del '900. Ma in realtà Cézanne è il pittore più concreto, più terragno in senso totale, più legato alla realtà della sua terra che sia mai esistito. E terragno, legato ai miei alberi e campi, alla natura, sono anch'io, nelle più profonde radici del mio essere. Ma, pur figurativo per vocazione, sento il fascino del colloquio a due con la tela bianca e del puro linguaggio delle forme e dei colori.
Gli ascolti musicali del 1987 e altre opere nate da emozioni, sensazioni, dimostrano il mio interesse a questo tipo di espressione che, trovo, convive perfettamente con il resto del mio lavoro.
Oltre al grande filone cézanniano, nel nostro secolo c'è stato tutto un fiorire di movimenti, dal futurismo al surrealismo, alla metafisica, all'espressionismo, e vari derivati, che spesso si sono nutriti più di letteratura che di pittura, ma che sono di grandissimo interesse nei loro esponenti maggiori.
Ma il fenomeno che appare più evidente verso la fine dell'ottavo decennio, è il progressivo appannarsi e ingrigirsi della figura dell'artista umanisticamente inteso. Quanto accaduto nel secolo scorso all'artigianato che subì il feroce assalto dell'industria, tesa a riproporre in macroscopica ripetitività oggetti solo apparentemente simili a quelli che erano soliti uscire, quasi pezzi unici, dalle mani dell'uomo, si è riproposto in questo secolo per l'arte, con la così detta "A" maiuscola, anche se in modo diverso. L'industria, impossibilitata a proporre nella produzione di grande serie l'opera dell'artista, ha seminato e coltivato il mito della firma, che dà lustro e personalità al prodotto dando vita a una nuova figura: lo stilista.
Ormai in ogni campo, dalla moda a mille altri prodotti di largo consumo, il firmato ha un fascino irresistibile per un pubblico pilotato dai mass media.
I vari Armani, Fiorucci, Gucci, Valentino..., hanno sostituito nella sfera dei valori culturali medi i nomi degli artisti.
È facile dire che siamo nella stupidità collettiva; il fenomeno esiste, ed è anzi in espansione.
Ma una nuova richiesta di valori è forse dimostrata dall'enorme interesse che accoglie le grandi mostre dei Maestri europei che hanno operato tra la fine dell'ottocento e gli inizi del novecento, che si stanno allestendo attualmente.
E allora c'è da sperare in un risveglio reale di amore per l'opera d'arte.
Altro non so dire; aggiungo solo che il quadro può essere creato o fabbricato.
Il mistero dell'Arte è tutto qui: non c'è figurativo o astratto; non ci sono etichette o formule che contino, e il tempo è il solo giudice implacabile.
Per quanto mi riguarda, al di sopra e al di fuori di ogni discorso e disquisizione culturale, nella pittura ho riversato ed espresso tutte le emozioni e gli stati d'animo della mia esistenza, giorno per giorno, ora per ora.