La forza della pittura

Elio Mercuri

Tira oggi per la pittura aria di maltempo. Basti pensare al ruolo che gli viene assegnato alle manifestazioni ufficiali come la Biennale di Venezia, relegata a retrospettiva di maestri morti come se fosse consegnata definitivamente ad un passato, soggetta a facili liquidazioni teoriche in nome di pretestuose ideologie dell'avanguardia ieri, della ricerca oggi.
E in effetti se uno identifica la pittura con le grandi manovre mercantili, con la corruzione dei suoi valori per spirito di volgare speculazione, con i falsi percorsi di immobili maestri, certo che il saldo è scontato. La realtà è altrove.
Fuori da queste beghe la pittura c'è e svolge integra la sua funzione in rapporto al bisogno di espressività e di creatività dell'uomo; conserva la sua funzione di dare vita, nonostante tutto, all'aspirazione costruttiva della verità tutt'uno con la nostra storia.
È naturale che porti i segni di un travaglio e di un dubbio che affonda le sue radici nel malessere dell'esistenza, in questa crisi ritornante nelle stagioni della vita, ma assume pure connotazioni e aperture inedite e impreviste, delinea l'orizzonte di ogni nostro umano sogno e speranza.
C'è tutta una storia di artisti e di opere, di realtà da recuperare in modo che si ribalti, una volta per tutte, il forte rapporto tra capitali dell'arte e provincia, tra maestri e minori,tra esperienze restate segrete e finzioni di apparati pubblicitari.
In questa prospettiva un artista autentico che occupa un serio spazio di realtà e di pittura è Gustavo Benucci, il quale con dolorosa coerenza ha sviluppato una sua linea di ricerca, fino a comporre una sua proposta: proposta come risoluzione di una sua personale vicenda e come indicazione per un destino comune da vivere possibilmente in modo più vero e felice.
Benucci ha vissuto un profondo travaglio, che è stato crisi di valori e tormento di esistenza; si è sentito come preso da una invincibile forza di disgregazione, la sensibilità lacerata da fonde e immedicate ferite; l'intelligenza come prigioniera di un'ossessione che restringeva ogni spazio, il mondo, fatto di cose e oggetti cari, del paesaggio dolcissimo della sua Umbria, di delicate presenze farsi distante, irraggiungibile ormai per sempre perduto. Intorno frammenti irriconducibili all'origine, relitti, immondizie, la vita tra barattoli, esistenza ridotta a bidoni, davanti muri e porte e finestre sbarrate, con segni di un abbandono di morte.
Ha sentito di dover aprire gli occhi, fermare con sforzo estremo gli sguardi e con mano quasi autonoma scavare in ogni graffio, e scrostatura, e crepa e ombra e luce.
Trovare la forza di fronteggiare questo sfacelo; di salvare la pittura, mentre la vita si spezzava e ogni emozione non trovava più riscontro nella sensibilità e nel cervello.
Tutto poteva essere travolto nel naufragio dell'esistente; ma non la pittura, questo mestiere che doveva assumere su di sé la finale responsabilità di un senso. Che anche questo morire avesse un significato, che quel frammento trovasse la grazia dell'assoluto.
I relitti, i resti, come di una Colazione sull'erba che ha perduto tutto il suo splendore di scoperta di felicità ; di questo pic-nic consumato in disfatta in altra occasione di fuga e di incontro terminata in misterioso festino di morte, in senso ossessivo di una nostra inamovibile impossibilità, di questa integrazione assurda in una dimensione dove la impassibile rappresentazione di realtà si trasforma in assoluta testimonianza di irreale e di assurdo.
Porte e muri, reti e filo spinato occupano in una loro fredda e allucinativa presenza i quadri e poi quella macchina, da una parte, con lo sportello aperto, oscura prova di riti e miti, che il consumismo ha ridotto ad automatiche ed insensibili apparizioni, al limite di una nostra visione ossessiva.
I riferimenti a ciò che accade nella pittura di oggi confermano l'originalità della ricerca di Benucci; c'è un preciso raffronto con la linea dell'iperrealismo, ma qui viene meno l'imperturbabilità dell'occhio nel portentoso mestiere della mano; non c'è la freddezza dell'obiettivo fotografico, c'è il prodigio di un occhio e di uno sguardo che la tensione e l'ansia e il bisogno e il desiderio hanno reso sensibilissimo, paurosamente assoluto, in questo rischio e sfida da cui dipende l'esito finale, del poter vivere felici e liberi in armonia di esistenza e natura, o di un'oscura aria di disfacimento e decomposizione, che tra atroci solitudini in una luce che qualcosa di marcio impedisca, è annunciazione definitiva e irrevocabile di morte.
L'illusione di una felicità, anche se perduta e soltanto memoria, è appena un filo luminoso che vuole più triste, forse, la condizione di ora.
Benucci chiede alla forza della pittura, in questo suo essere fisica presenza dell'uomo, di evocare la luce interna delle cose, di incarnare la speranza che ricompone i nostri frammenti, le nostre condizioni, le nostre lacerazioni, in vita, in amore, in desiderio, in realtà, sì da sottrarci alla paura, o peggio a questa vertigine di vuoto e di nulla, alla nausea, a questa insostituibile a lungo atmosfera di solitudine e di morte.
Il quadro, più ancora il gesto di dipingere, è il punto trascendentale, la nostra crisi e la decadenza del mondo, che può nella luce improvvisa di un crepuscolo, o del tremore di un raggio di sole su una foglia verde tra i giochi dei nostri figli nel fulgore di una primavera che scioglie i crucci di ogni gelo, renderci di nuovo prossimi a quella realtà, estrema assoluta irreversibile, per quanto più tardi possa tornare forte la tentazione della tristezza e il senso struggente del nulla.
La concupiscenza della morte lascia le nostre vene e la nostra mente, il nostro cuore è libero.
A indicare questa possibilità ancora una volta è una presenza di una pittura che assume per forza di verità e autenticità di ideale un raro e preciso valore di documento poetico e civile.

[1979]