Gustavo Benucci
Della morte dell'arte si parla tanto, e non da parte di piccoli sprovveduti.
È certo che in una società come la nostra, protesa solo al denaro, al più sfrenato consumismo, dove la cravatta o la camicia firmata già sembrano soddisfare le esigenze culturali di tanti, la parola "arte", nel suo vero significativo, non trovi una facile collocazione.
Per contro, le grandi opere d'arte del passato, nelle aste internazionali, raggiungono quotazioni da capogiro. Raramente l'acquirente è un privato cultore d'arte: più spesso è un ente o un'industria in cerca di immagine e pubblicità. Ma questa è anche una nuova forma di mecenatismo, e nuovo e molto positivo è anche l'interesse crescente da parte delle Banche per le opere d'arte.
Ma, indipendentemente dalla sua destinazione e dal suo valore, l'opera d'arte, pensata, creata dall'uomo, trova in se stessa la ragione della sua esistenza, e la sua sopravvivenza è la sola garanzia che anche l'uomo, con la sua identità individuale, la sua libertà e capacità di pensare e operare, esiste ancora.
Un uomo, ridotto a un codice di computer o prodotto in serie dall'ingegneria genetica per le varie necessità di un'ipotetica "civiltà", del domani, non produrrebbe più arte, ma non sarebbe più un uomo.
La morte ci è compagna di strada dal momento della nostra nascita, ma facciamo finta di non vederla. La ignoriamo, e quando ci sfiora portandoci via persone care, amici, appena per un attimo ci rendiamo conto che verrà, un giorno, anche per noi. Non serve dire che non ci fa paura.
Guardare lontano, oltre l'orizzonte, ricercare la verità fra il groviglio degli errori della nostra esistenza, considerare con profondo amore ma anche con distacco tutte le cose di questo mondo, ci aiuterà a tremare un po' meno quando la sentiremo bussare alla nostra porta.